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“Amo lei”: la complessa condizione delle donne lesbiche

Una coppia unita, la loro quotidianità, la crisi, il tradimento, il ritrovarsi: questa è la storia d’amore raccontata da Maria Sole Tognazzi in “Io e lei”, film da poco trasmesso anche sugli schermi televisivi. Le protagoniste, Marina e Federica, sono due donne impegnate a gestire le proprie vite, il lavoro, le amicizie, rimpianti e desideri e, soprattutto, la loro relazione. Il film, pur descrivendo con semplicità le vicende di una coppia come tante, con alcuni particolari e inquadrature, suggerisce allo spettatore le sfumature che possono contraddistinguere la condizione delle donne lesbiche (www.repubblica.it).

Essere donna nella cultura occidentale, ancora, può significare essere vittima di discriminazioni per l’appartenenza ad una categoria ritenuta “debole”, “subalterna a quella maschile”. Ed è proprio a ridosso della giornata contro la violenza sulle donne che occorre porre l’attenzione su coloro che vivono una condizione di “doppia discriminazione”.

Tra queste, possiamo fare certamente riferimento alle donne che si dichiarano lesbiche, ovvero a coloro che dichiarano di essere attratte sessualmente ed affettivamente da persone dello stesso sesso.

Come dimostrano diversi studiosi, iniziando dalla filosofa e antropologa Judith Butler, molte donne lesbiche vivono storie di doppia discriminazione (www.gionata.org). Queste sono bersaglio di innumerevoli pregiudizi, sia perché trasgrediscono le “leggi dell’eterosessualità”, sia perché, attraverso le loro storie di vita, stravolgono quelli che sono i percorsi tracciati dagli stereotipi sociali.

Questa condizione di doppia discriminazione, spesso, non solo non è nominata, ma anche non vista. Pregiudizio comune è quello che vede le relazioni tra donne lesbiche come socialmente più accettate di quelle tra uomini omosessuali. Culturalmente, i comportamenti affettuosi tra donne sembrano essere più accettati rispetto a quelli fra uomini, che, quindi, attirano reazioni più violente (www.west-info.eu). Tale pensiero è documentato anche da diversi studi che mostrano quanto l’omofobia sia espressa maggiormente verso gli uomini che verso le donne (Herek, 2002).

Un recente filone di ricerche condotto da McCabe, al contrario, si è occupato di dimostrare che le relazioni tra lesbiche sono socialmente più invisibili e che, pertanto, i problemi di queste possono essere più ignorati rispetto a quelli delle persone omosessuali di sesso maschile.

Uno spunto che va in tale direzione nasce da una riflessione sugli hate speech (www.gay.it), sulla differenza esistente tra gli insulti rivolti agli uomini gay e alle donne lesbiche. Le parole per insultare i maschi gay sono tante e anche antiche. Per le donne lesbiche, invece, sembra esserci un vuoto che sembra non essere casuale. “Le lesbiche non esistono”, un documentario, realizzato da L. Landi e G. Selis (https://www.youtube.com/watch?v=ZZrshWCT5pg) – interpreta questa “mancanza” come la prova tangibile di una scarsa considerazione, come una forma di censura, di non riconoscimento: Non ti nomino, perché non esisti. Molte attiviste lesbiche, in questa sorta di invisibilità, riconoscono un sintomo pericoloso per il riconoscimento dei propri diritti e bisogni.

Un’altra interpretazione riguardante “la mancanza di insulti specifici” verso donne e ragazze lesbiche può essere letta attraverso un richiamo all’ideologia sessista, che relega la donna in specifici ruoli. L’immaginario comune, infatti, riconosce le donne lesbiche in due rappresentazioni specifiche: la prima descrive una donna oggetto, protagonista dell’industria pornografica, la seconda una donna iper-mascolinizzata.

Il discorso sugli hate speech, naturalmente, non satura le diverse manifestazioni di discriminazione e omofobia verso le donne lesbiche. Come per le persone gay e bisessuali, le donne lesbiche sono accomunate da quella che è stata definita una condizione di minority stress (www.apa.org), ovvero una condizione di disagio psichico che deriva dall’appartenenza ad una minoranza sociale, discriminata e stigmatizzata in quanto tale.

Nello sviluppo psicologico, il riconoscimento sociale ha grande importanza perché, ad una rappresentazione interna di sé, consente di consolidarsi e fortificare, a sua volta, meccanismi di riconoscimento identitario sia intrapsichici che relazionali.

Quando questi processi vengono a mancare, o vengono minati, chi vive in una condizione di minoranza si trova ad affrontare vissuti e situazioni di stress continuativo, in grado di far emergere problemi di adattamento o sintomi psicopatologici. Nel caso di persone con un orientamento non eterosessuale il percorso di crescita ed autoaffermazione identitaria, dunque, si prospetta complesso e costellato di difficoltà, a partire dal coming out. Le donne lesbiche, in aggiunta, possono incontrare ulteriori problemi connessi anche alla propria identità di genere, alla propria identità di donna.

Come procedere

Se senti di avere necessità di una Consulenza in ambito Individuale, piuttosto che di Coppia o Familiare, puoi fissare un appuntamento contattando i numeri 06 92599639 o 388 8242645, o puoi scrivere all’indirizzo e-mail info@massimocanu.it

In caso di impossibilità a poter raggiungere lo Studio, in Roma, potrai fare altrettanta richiesta per una prestazione On-Line, avvalendoti della piattaforma web appositamente realizzata. E’ intuitiva, rapida e sicura.

A conclusione di tale fase consulenziale, sia in Presenza che On-Line, sarà definito quanto emerso nel corso del lavoro e, eventualmente, saranno focalizzati gli obiettivi per l’avvio di una Psicoterapia, la quale potrà essere Individuale, di Coppia o Familiare.

Chiedere aiuto è un segno di forza e, soddisfare i tuoi bisogni psicologici, equivale a compiere il più importante atto d’amore che possa fare verso la tua persona, ancor prima che per coloro che condividono la loro vita con te.