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Il dramma silenzioso della violenza di genere

La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata nel 1993 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, definisce violenza di genere “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata” (http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Dichiarazione-sulleliminazione-della-violenza-contro-le-donne-1993/27).

Quello della violenza di genere è un tema tristemente attuale, che troppo spesso torna a riecheggiare tra le pagine di cronaca. Risale al 7 giugno la notizia di un delitto avvenuto a Riofreddo, in provincia di Roma; una vera e propria esecuzione, che ha visto come vittima una donna di 47 anni e, come carnefice, il partner, un allevatore di 51 anni: “Ha ucciso la compagna con un colpo di pistola alla testa e poi ha tentato di uccidersi […]. Il movente sarebbe passionale, la vittima voleva lasciarlo” (www.ansa.it). L’episodio è reso ancor più tragico dal fatto che, al momento dell’omicidio, in casa fosse presente la minore dei quattro figli della coppia, una bimba di 8 anni, la quale avrebbe dato l’allarme telefonando ai fratelli maggiori.

Stando alle statistiche, i “femminicidi”, l’espressione più cruenta ed efferata della violenza di genere, negli ultimi anni hanno assunto proporzioni allarmanti. Nel Secondo Rapporto sul femminicidio in Italia – Caratteristiche e tendenze del 2013, pubblicato dall’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali EU.R.E.S. nel novembre 2014, si legge come, a fronte di una significativa diminuzione degli omicidi volontari, nel nostro Paese sia aumentata in maniera esponenziale la componente femminile tra le vittime (dall’11,1% del 1990 al 35,7% del 2013):

“l’omicidio volontario in Italia, se nel ventennio precedente si caratterizzava come fenomeno legato alla criminalità organizzata (che colpiva quasi esclusivamente gli uomini), nell’ultimo decennio si è “ripiegato” in larga parte all’interno delle relazioni di prossimità (lavoro e rapporti economici, vicinato, contesti amicali) e soprattutto nel contesto familiare, dove la vittima si configura nella larga maggioranza dei casi nella figura femminile. […] Nel solo 2013 le donne uccise in Italia sono state 179, il valore più alto degli ultimi 7 anni, di cui ben 122 (vale a dire una ogni 3 giorni), per mano di un familiare, di un partner o di un ex partner, attestandosi, l’incidenza del contesto familiare (68,2%), su valori molto vicini alla media dell’intero periodo” (www.eures.it).

L’omicidio di genere rappresenta, tuttavia, solo la punta più estrema di un fenomeno su scala globale fatto di abusi, prevaricazione e maltrattamenti, spesso perpetrati tra le mura domestiche, le cui radici affondano in un pregiudizio antico, che sopravvive tutt’oggi in diverse culture e in numerosi contesti sociali: il convincimento secondo cui la supremazia fisica sia il segno incontrovertibile della superiorità del “maschio” nei confronti della “femmina”. Talvolta il silenzio delle vittime diviene una forma di complice assenso che può avallare e, in molti casi, giustificare il comportamento del partner. Paura, vergogna, dipendenza psicologica ed economica, timore di perdere i figli; sono tanti i motivi che possono spingere una donna a non sporgere denuncia o, addirittura, a non confessare ad anima viva i maltrattamenti e le umiliazioni subite in casa, portandosi dentro, per anni, i segni indelebili delle percosse.

Per questo la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, varata l’11 maggio del 2011, ha identificato tra i suoi principali obiettivi quello di “contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne”. La cosiddetta Convenzione di Istanbul, oltre ad identificare una serie di misure preventive per arginare la violenza di genere e a stabilire i procedimenti penali per i colpevoli, definisce e criminalizza “le diverse forme di violenza contro le donne tra cui il matrimonio forzato, le mutilazioni dei genitali femminili, lo stalking, le violenze fisiche e psicologiche e la violenza sessuale” (www.coe.int/conventionviolence).

Secondo le stime Istat relative al 2014, presentate il 5 giugno scorso nell’ambito della ricerca “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia”, commissionata dal Dipartimento delle Pari Opportunità, sono quasi 7 milioni le donne ad aver subito violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita (nel 10,6% del campione prima dei 16 anni di età), i molti casi ad opera del partner o dell’ex partner.

“La violenza fisica è più frequente fra le straniere presenti in Italia (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%) […]. I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente […]. 3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita […] Di queste, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner, 2 milioni 229 mila da persone diverse dall’ex partner”.

Un fenomeno di grande vastità che, come nel caso di Riofreddo, può coinvolgere la prole e aggiungere al dramma della violenza di genere quello della violenza assistita:

“Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014)”.

Rispetto al passato si denota una “maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle e si affianca anche una maggiore consapevolezza. Più spesso considerano la violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercano aiuto presso i servizi specializzati, Centri Antiviolenza e Sportelli di Ascolto (dal 2,4% al 4,9%)” (www.istat.it).

Eppure sono ancora numerose le donne che subiscono la violenza domestica come se fosse parte di un destino già scritto, una fatalità alla quale non si può opporre resistenza. In molti casi, considerano questa sudditanza una forma di fedeltà, senza rendersi conto che l’uomo con cui hanno deciso di condividere la propria vita, nel frattempo si è trasformato in un aguzzino. Accade, così, che vittima e carnefice, all’interno di tale rapporto sado-masochistico, si coalizzano implicitamente in una sorta di omertà che chiama direttamente in causa anche i figli, i quali assistono impotenti alla tragedia che si consuma quotidianamente sotto i loro occhi.

Per aiutare e sostenere le donne che hanno subìto maltrattamenti o abusi, per sostenere i minori che sono stati a loro volta vittime o hanno assistito ad atti di violenza o ad episodi cruenti ai danni di un genitore, il Centro Italiano per la Psiche prevede una serie di servizi atti a permettere alle persone coinvolte di elaborare il trauma e, alle figure familiari significative, di seguire un iter volto a conquistare una maggiore consapevolezza circa il vissuto della vittima, adulto e/o minore, così da poterla supportare verso la riconquista graduale di una maggiore serenità e di un progressivo affrancamento rispetto ad una relazione sentimentale lesiva della propria dignità o che comporti rischi per il benessere psico-fisico proprio e dei figli.

I percorsi di Psicoterapia Individuale, di Coppia o Familiare si configurano, inoltre, quali strumenti utili a prevenire eventuali degenerazioni del conflitto all’interno della coppia, così da evitare le possibilità di sfociare in episodi e comportamenti violenti ai danni del partner o dei figli.

Il Centro Italiano per la Psiche

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